di Americo Carissimo
Con la clausura per il coronavirus cambia la cornice mentale dell’apprendimento, il cosiddetto brainframe. Spesso docenti e famiglie non sono pronti a integrarsi in un flusso globale di codici e nuove complesse forme di comunicazione.
Emergono rischi per la privacy e per la stessa identità culturale della scuola italiana: intanto i colossi del web possono accedendo liberamente a un’enorme quantità di dati sensibili sullo sviluppo pedagogico di un’intera generazione.
La didattica a distanza, ribattezzata dad, in un mondo scolastico dove essenzialmente genitori e alunni si affannavano a esagitarsi su gruppi whatsapp e consultare in modo compulsivo il registro elettronico, se funzionante, ha costretto tutti a cambiare il proprio stile digitale. Certo alcune scuole virtuose e molte università già lavoravano con strumenti multimediali.
Non è proprio facile gestire una connessione credibile ed efficiente con le proprie classi per i docenti e consolle casalinghe adeguate per le famiglie coprotagoniste, non sempre responsabilmente, delle lezioni on line. Una cosa è avere ragazzi bravi nella nobile arte dei videogiochi un’altra nella più faticosa arte dell’apprendimento. Certo per i futurologi è scontato che ci si possa istruire anche se si vive su una stazione orbitante o su una base lunare o marziana, magari con un’intelligenza artificiale o con saggi maestri rimasti sulla Terra. Niente di più semplice se non fosse che con le idi di marzo del 2020 i congiurati del complotto globale non hanno assassinato Giulio Cesare, ma il ritardo strutturale di una morente repubblica in formato digitale.
Che cosa ci ha insegnato lo scandalo Cambridge Analytica
Ora si configura un nuovo scenario, dopo un’inevitabile “guerra civile” di piattaforme e difficile rispetto delle leggi, di privacy e contratti di lavoro, di diritti sindacali e abuso di posizioni dominanti: l’inevitabile ascesa di un impero sempre più gestito dalla Silicon Valley. Le singole nazioni con i loro sistemi di istruzione, di formazione e di informazione non possono competere con i colossi Google o Facebook. Come si riflette questo strapotere sul sistema scolastico italiano o di un altro Paese che voglia rispettare le regole dell’Unione europea? Bisogna capire se iI caso Cambridge Analytica abbia insegnato qualcosa dopo l’uso indiscriminato dei dati personali di milioni di account Facebook, senza il loro consenso, utilizzati per scopi di propaganda politica. Figuriamoci che cosa si potrà estrapolare da quelli ricavati dalla didattica on line, senza un’etica che ne freni o quantomeno ne disciplini l’utilizzo a scopi economici e di consenso. Il sociologo Eugeny Morozov aveva lanciato l’appello contro i padroni della rete già da qualche anno, spiegando che l’economia della condivisione nasconde un pericoloso oligopolio non proprio democratico. In particolare Morozov aveva descritto nel suo volume Contro Steve Jobs un abile profeta del marketing senza troppi scrupoli piuttosto che un benefattore dell’umanità. Se in effetti grossi investimenti rimangono nelle mani di pochi, con la giustificazione del neoliberismo, bisogna anche capire quali libertà restino all’individuo e magari anche quali reali possibilità di guadagno per gli utenti comuni.

La situazione italiana e il repentino salto nel digitale
Il Garante italiano per la privacy ha già fornito alle scuole le prime indicazioni sulla didattica a distanza necessaria per garantire il diritto all’istruzione rispettando la tutela dei dati personali e conformandosi ai principi di privacy by design e by default. Il suo obbligo pone un interessante questine, ovvero se la teoria pedagogica del connettivismo, non sempre considerata nel nostro Paese, abbia oggi più che mai una sua validità. L’ha formulata George Siemens insieme a Stephen Downes per superare altre più classiche scuole di pensiero come cognitivismo, costruttivismo o comportamentismo: insomma ora l’apprendimento è la rete stessa, come a suo tempo il mezzo è il messaggio, rivoluzionario monito lanciato da McLuhan, teorizzatore del villaggio globale.
Perché tanta resistenza da parte di studiosi ed educatori nonostante viviamo in un mondo iperconnesso? Suscita sospetto un apprendimento che attraverso l’e-learning potrebbe dipendere, in un futuro non troppo lontano, anche da un’intelligenza artificiale come massima autorità. Empatia e formazione di un docente non dovrebbero essere sostituite da una macchina, anche se i robot docenti in Oriente sono già realtà. Un altro passo in avanti e siamo già in un romanzo distopico di fantascienza con la scusa di utilizzare al meglio tutte le possibilità della rete e dei big data. La filosofia del connettivismo pone molti interrogativi in un mondo dove le multinazionali del web sono più influenti degli stessi Stati. Chi dovrebbe monitorare il rapporto allievo-docente, autorità statali o responsabili del marketing digitale? Qualcuno ha detto ironicamente è come se le corporazioni degli stampatori, dopo l’invenzione dei caratteri mobili, avessero avuto da sole il diritto di nominare e premiare membri accademici ed esperti universitari.

Docenti o devoti della Silicon Valley?
Per molti docenti rincorrere la novità, essere comunque in grado di produrre lezioni interattive, restare in contatto con i propri alunni sono processi che rischiano di finire inglobati in una gigantesca manna di profili psico-pedagogici in pasto ai big data. Ecco la profilatura perfetta, ancora meglio del marketing comportamentale e del neuromarketing a dispetto dell’etica della rete. Qualsiasi algoritmo potrevve analizzare anche le espressioni facciali di un alunno quando segue una lezione, per non parlare poi della miniera d’oro dei dati sensibili finiti sulle piattaforme. Rientrano in questa categoria il gradimento di argomenti e libri di testo, i feedback incrociati sui vari social, le visualizzazioni dei profili di scuole e docenti. Le ricerche di mercato sono sempre state molto costose e laboriose: ora con l’uso della rete sono economiche ed alla portata delle multinazionali per creare profitti. Non che per gli utenti del web prima ci fosse un particolare rispetto della loro privacy, perché lì dove non paghi un servizio, il prodotto sei tu che offri gratuitamente le tue specificità e non viceversa. La Commissione europea aveva già multato Google per 1,5 miliardi di euro per il solito abuso di posizione dominante. La colpa? indirizzare con troppa disinvoltura le ricerche degli utenti sul servizio shopping, una palese violazione delle norme comunitarie antitrust.
Lo psichiatra Manfred Spitzer in due interessanti volumi ha sottolineato i rischi nell’uso degli strumenti informatici e della rete per i giovani: i titoli sono emblematici, Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi e Solitudine digitale. I casi che ha esaminato nel suo centro in Germania per le neuroscienze e l’apprendimento sono drammatici: difficoltà di concentrazione e di socializzazione, dipendenza psicologica ossessiva dai social, depressione e nei casi più gravi anche suicidio. Senza enfatizzare il caso degli hikikomori giapponesi e non solo che si isolano dal mondo, la reclusione e il distanziamento sociale potrebbero aumentare i casi di rifugio in un vita virtuale.
Ma la didattica a distanza incombe come nuova promessa pedagogica. Le grandi aziende del settore hanno risposto come recita la pagina del Ministero alla “call”, anche se dopo l’istituzione del Dantedì ogni 25 marzo, il padre della lingua italiana forse avrebbe preferito la parola appello. A smorzare gli entusiasmi per gli ottimisti della rete è arrivata anche la combattiva Shozanna Zuboff dalla Harvard Business School con un altro corrosivo libo: Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri. Il titolo è tutto un programma: paghiamo per farci controllare, anzi facciamo a gara per sembra più cool e digitali.
Quando la rete diventa una specie di mente collettiva
La didattica a distanza come obbligo non è certo un male, anzi un’occasione di crescita comunicativa con l’unico problema di gestire un cambiamento di brainframe, di cornice mentale come ha spiegato nei suoi studi il massmediologo Derrick de Kerchove, per dieci anni assistente di Marshall Mc Luhan. E qui le cose si complicano davvero. Se nella storia della scrittura e dell’alfabetizzazione De Kerchove ha dimostrato come semplicemente inserendo le vocali negli antichi alfabeti si muta la sequenza di scrittura da sinistra a destra, invertendola rispetto alle classiche lingue consonantiche, immaginiamo quanto possa cambiare la struttura mentale dei digital native. Se crediamo che corpo e macchina a un certo punto si integrino dobbiamo anche rimettere al centro la nostra consapevolezza rispetto all’uso delle nuove tecnologie nelle nuove prassi della didattica on line.
De Kerchove ha anche analizzato il concetto di webness per cui la rete forma una specie di mente superindividuale dove tutti sono interconnessi, si spera in modo responsabile e senza cadere in una visione acritica del mondo. Ecco perché cambia il modo di insegnare e di apprendere rispetto alla Generazione App come la chiamano nell’omonimo libro Katie Davies e Howard Gardner. Proprio Gardner ha teorizzato l’importanza delle intelligenze multiple che vanno molto al di là delle classiche abilità linguistiche e logico matematiche, partendo da quella musicale e corporea fino ad arrivare a quella spaziale e interpersonale, senza dimenticare natura e interiorità.
Certo i giovani possono essere utenti passivi, ma anche diventare reali protagonisti dei loro nuovi processi di identità, intimità e immaginazione: a patto che genitori e docenti li aiutino e li seguano in questo senso. Se qualche passo in avanti è stato fatto lo scopriremo all’inizio del nuovo anno scolastico, virtuale o reale che sia.
Articolo molto interessante e attuale.