di Massimo Pasqualone
Ripensare il fine-vita come consapevolezza, visto che è ormai un processo che non riguarda più l’uomo ma la macchina sanitaria e la burocrazia sociale. La persona è ridotta ad un numero senza volto e ad una sigla senza emozione: eppure filosofia e teologia da secoli ci riportano al senso del divino anche durante una pandemia.
Interrogarsi sull’origine e sul significato della vita non può non rimandare al senso della sua scomparsa, cioè della morte: il chiamare l’uomo dalla non-esistenza all’esistenza esige una risposta al senso di tale realtà quando questa si colloca al termine dell’esistenza stessa; il non-esistere ancora interpella il non-esistere più.
Eppure, in tempi di pandemia da coronavirus, potremmo parlare di banalizzazione della morte, con un eccesso di inutili numeri, di percentuali, di più e meno che trasformano la sofferenza ed il dolore in atarassica sequenza matematica, le persone in studi statistici. In una sorta di ripensamento, persino di riavvicinamento, con un fino a ieri in cui eravamo disabituati alla morte che diveniva tabù tanto da arrivare a parlare, con l’antropologo inglese Geoffrey Gorer, di pornografia della morte e la stessa semantica che produceva eufemismi: “se n’è andato”, “ci ha lasciati”, “non è più con noi”, mentre l’oggi diviene tempo di rigenerazione di un concetto che sembrava essersi definitivamente assentato. Che sia questa l’occasione buona per ridare significato alla morte che vuol dire innanzitutto ripensare la morte stessa, darle, o ridarle, sostanza: «Impresa ardua, certo e assolutamente non oggettivabile che si radica profondamente nei vissuti esperienziali dell’individuo, che esige una completa ed esaustiva risposta ai grandi interrogativi dell’esistenza» – direbbe Salvino Leone medico e teologo dei nostri tempi.
Ridare una dimensione umana al distacco dalla vita per evitare di essere ridotti a pura cifra statistica
Ridare senso alla morte, vuole dunque dire ridare senso alla vita. Questo, però, non basta, occorre farsi compagnia di chi muore. Montaigne gioca sull’ambiguità del termine ostetrica – in francese sage-femme – e dice: «Se, per venire al mondo ci vuole una donna saggia, per uscire dal mondo ci vuole un uomo ancora più saggio». Siamo in grado di accompagnare il morente?
Il coronavirus ha inoltre dimostrato come, se ce ne fosse ancora bisogno, la morte contemporanea sia una morte essenzialmente disumana, che non ha per protagonista l’uomo, ma la macchina, i medici, gli infermieri, una volta i familiari; diremmo, una morte “espropriata”, “senza volto”.
Riecheggiano le parole del già citato prof. Leone: «La morte avrà un volto umano solo se l’uomo saprà guardare con coraggio e serenità a quella falce che recide, certo, ma nel farlo prelude a nuova vita, nella continuità della memoria e della generazione o nella trasformazione verso nuovi orizzonti esistenziali».
La morte fa problema, perché si identifica come un passaggio verso un aldilà costituito da un grosso punto interrogativo ed ecco perché la questione dell’esistenza futura si trasforma in problema esistenziale del presente storico, del momento che viviamo. Un aneddoto, segnalato da Diogene Laerzio nelle Vite dei filosofi, ricorda come Talete sosteneva che in nulla la morte differisce dalla vita. «E tu allora perché non muori?» gli si diceva; la sua risposta era: «Perché non vi è differenza». Questa è, dunque, una domanda seria: non vi è differenza perché la vita viene assimilata alla morte o perché la morte viene assimilata alla vita? La filosofia ritiene che la morte, sempre presente al suo convivio, intesa come fine della propria esistenza, appaia evento impossibile, non razionalmente pensabile.

Filosofi e teologi da sempre alla ricerca del divino per dare senso all’esistenza
Lo stesso Kant è stato costretto a postulare l’immortalità dell’anima per la Ragion pratica, per la vita morale; una conversione ontoteologica, ovvero riconoscere l’esistenza di Dio, è però necessaria. Allora la sopravvivenza dell’essere umano appare legata all’esigenza morale di tendere in eterno verso la perfezione assoluta: durante questa sua eterna tensione l’uomo può o potrebbe realizzare il pieno possesso del suo essere. In altre parole, se l’esperienza della morte si rivela filosoficamente impossibile, l’intento è di illuminarla a partire da ciò che la precede, la vita umana come esistenza consapevole tra ragione e rivelazione, un processo di autocomprensione. La teologia della morte, soprattutto in autori come Karl Rahner e Ladislaus Boros, è stata rinnovata in questo senso e, per dirla con François-Xavier Durrwell: «È data al cristiano di vivere da subito la morte».
Accanto a tutto questo, mai come in questi tempi oscuri, viene fuori la questione dell’allocazione delle risorse in sanità, che è scelta su chi salvare e chi no. In Olanda, secondo quanto riportato da organi di stampa, al fine di evitare affollamenti all’interno degli ospedali, e soprattutto nei reparti di terapia intensiva, pare che le autorità sanitarie nazionali abbiano invitato i medici a contattare i propri assistiti per chiedere loro il da farsi di fronte alla malaugurata ipotesi di contagio: essere curati con una “lunga ventilazione”, quindi con i respiratori, oppure, lasciare che la malattia faccia il suo corso?
In poche parole, di fronte all’esiguità degli strumenti medicali, conviene effettuare una selezione naturale, diremmo, una eutanasia sociale, potremmo finanche azzardare, per evitare che gli ospedali, al limite della loro capienza, debbano poi scegliere tra gli anziani e i giovani, questi ultimi con più probabilità di scampare alla malattia (e ci viene il ragionevole dubbio che lo stesso sia accaduto dalle nostre parti).
Che dire? Al n. 64 dell’Evangelium vitae, enciclica sull’inviolabilità della vita umana scritta da papa Giovanni Paolo II nel 1995 si legge a proposito dell’eutanasia: «Oggi, in seguito ai progressi della medicina e in un contesto culturale spesso chiuso alla trascendenza, l’esperienza del morire si presenta con alcune caratteristiche nuove. Prevale la tendenza ad apprezzare la vita solo nella misura in cui porta piacere e benessere, la sofferenza appare come uno scacco insopportabile, di cui occorre liberarsi ad ogni costo. La morte, considerata “assurda” se interrompe una vita ancora aperta ad un futuro ricco di possibili esperienze interessanti, diventa invece una “liberazione rivendicata” quando l’esistenza è ritenuta ormai priva di senso perché immersa nel dolore e inesorabilmente votata ad un’ulteriore e più acuta sofferenza».
Ecco perché bisogna ridare un senso alla vita prima che alla morte.